Una vita piena

Una vita piena

Blue zone.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo che parlava delle blue zone, quei luoghi sulla terra dove l’aspettativa di vita è più alta. Il ragionamento di partenza era intrigante: se solo il 10% della durata media della nostra vita è determinato da fattori genetici ed il restante 90% è il risultato del nostro stile di vita, allora cercando in questi luoghi una matrice di comportamenti comuni si potrebbe capire come vivere più a lungo. Vi starete chiedendo: quali sono questi comportamenti? Dovremmo passare più ore in palestra, praticare yoga o mangiare bio? Questo aiuterebbe i 35 trilioni di cellule che possiede il nostro corpo ad arrivare (bene) a 100 anni? 

Dan Buettner, l’autore dell’articolo, ha individuato con l’aiuto di National Geographics, 3 blue zone (per inciso una è nel Nuorese in Sardegna) e ha catalogato questi comportamenti virtuosi riconducendoli a pochi, semplici, punti:

  1. nessuno di questi highlanders fa attività fisica come la intendiamo noi, semplicemente conduce una vita attiva, fa una costante attività a bassa intensità 
  2. la vita professionale e quella personale sono perfettamente bilanciate
  3. la dieta è costituita da prodotti dell’orto, legumi, frutta secca. In generale si assume meno cibo e la carne è quasi assente
  4. si stabiliscono relazioni durature e fiduciarie, gli highlanders vivono all’interno di comunità a cui sono fortemente legati

Fin qui tutto molto interessante ma piuttosto accademico, se non fosse che, la popolazione di Okinawa, la blue zone più longeva, quella che per inciso segna un + 7 secco rispetto alla vita media registrata negli Stati Uniti, introduce un quinto, rumorosissimo, elemento. Ad Okinawa tutti, ma proprio tutti, perseguono il loro Ikigai. Ikigai è un termine giapponese che significa letteralmente “ragion d’essere” inteso come raggiungimento della pienezza della propria vita. Ogni singola giornata non dedicata a ciò che si ama davvero è una giornata sprecata.

A ben pensare appare già incredibile che un popolo abbia coniato un termine per cristallizzare un concetto simile ma ancora di più potente del messaggero mi pare il messaggio stesso. L’Ikigai risponde ad una serie di dubbi da cui noi occidentali fuggiamo terrorizzati: Cosa mi fa alzare dal letto ogni santa mattina? Quale è lo scopo della mia vita? E, in ultima istanza, cosa mi rende felice?

Quale è stata l’ultima volta che vi siete fatti questa domanda e soprattutto dove vi ha portato la riflessione che ne è, o forse meglio dire, ne sarebbe dovuta nascere?

Lo abbiamo fatto pochissime volte e nella testa l’eco di questa riflessione non è durata che il tempo che intercorre fra il problema che avevamo appena risolto e quello successivo che si stava presentando. Questo perché, è inutile negarlo, le nostre vite sono concepite come un viaggio in treno mentre dovrebbero essere un’avventura on the road. Seguiamo dei binari, un tragitto preciso. Facciamo un liceo, scegliamo una facoltà che troppo spesso non è che il miglior compromesso possibile fra quello che ci piaceva fare e quello che era meglio fare per avere un posto in società, un futuro economicamente appagante. Quando raggiungiamo un minimo di stabilità economica mettiamo su famiglia, ci dedichiamo alla carriera dirottando su questo obiettivo la maggior parte delle nostre forze. Compriamo auto, vestiti, telefonini, facciamo vacanze in cui per 20 gg all’anno stacchiamo la spina salvo poi ricominciare esattamente da dove avevamo lasciato ed infine andiamo in pensione troppo tardi, consumati dallo stress e pieni di rimpianti. Siamo, nella migliore delle ipotesi, sempre alla ricerca di un appagamento effimero, consumistico, basato sull’avere più che sull’essere e con tutto questo rumore di sottofondo perdiamo completamente la vera dimensione della nostra felicità. Ma a ben vedere c’è di peggio: il nostro modello di vita ci ha a tal punto allontanato da questa prospettiva da impedirci non solo di darci risposte adeguate ma prima ancora di formulare le giuste domande. 

Siamo, come mi è già capitato di scrivere in un post precedente, incastrati nei canoni del nostro tempo, nelle regole imposte dalla società, nel comune pensiero. Chi se ne discosta nella migliore delle ipotesi fa i conti con i giudizi degli altri. Intendiamoci, sono un figlio di questi tempi anche io, sono sulla stessa giostra ma a differenza di altri percepisco chiaramente il bisogno di riflettere sulla portata di questi temi. Pienezza esistenziale, creazione di nuovi modelli di pensiero e di vita basati più sull’essere che sull’avere, decrescita come alternativa al consumismo dovrebbero essere protagonisti e non semplici comparse, dovrebbero occupare molto più del breve lasso di tempo che passa da una delusione, un fallimento lavorativo o una difficoltà economica al ritorno ad una normalità che di normale non ha proprio nulla.Magari non troveremmo una soluzione ma, nella peggiore delle ipotesi, potremmo cavarcela decidendo di amare quello che facciamo, se fare quello che amiamo non è proprio possibile.

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